Selezionare membri del team motivati o motivare i membri del team?
“Per me la leadership è un processo in cui si crea un mondo di cui gli altri vogliono far parte” – Robert Dilts
Quando segno un goal, non vinco solo io: dall’individualismo alla cooperazione.
Ricordo che parecchi anni fa mi capitò in mano una copia di una rivista di business in cui un articolo attirò la mia attenzione. Se non ricordo male il titolo era “dall’individualismo alla collaborazione”, e parlava delle skills manageriali. Si diceva in sostanza che i manager individualisti, che pensavano a conseguire successi e risultati, indipendentemente dalla qualità delle relazioni che erano in grado di creare, erano andati ‘alla grande’ in passato. Col mutare delle dinamiche socio-culturali ed economiche, però, stava prendendo piede una figura manageriale più funzionale alla cooperazione e al gioco di squadra, che a loro volta potevano favorire anche la motivazione e quindi la produttività.
“Io vinco e tu perdi” illude a breve termine; “io vinco e tu vinci” è più vantaggioso nel lungo periodo.
Nel film A Beautiful Mind con Russell Crow, che interpreta il brillante matematico John Nash, il protagonista in una scena fa una simulazione di come vanno a finire le cose se si agisce “alla Adam Smith”, padre dell’economia moderna, che viene sintetizzato da uno dei suoi compagni di studio: “nella competizione l’ambizione individuale serve al bene comune”. Possiamo mettere in atto azioni volte al nostro vantaggio e a scapito degli altri in un team, ma a medio-lungo termine loro cosa faranno? Reagiranno di conseguenza o cercheranno di pareggiare i conti, o di “vincere” la prossima volta, mutando la vittoria iniziale dell’altro in una sconfitta nelle relazioni.
Tenendo conto delle azioni e delle reazioni degli altri, il risultato migliore per il Nash nel film si ottiene invece quando “ognuno fa il meglio per sé e per il gruppo”. Questo è un fattore da tenere in dovuto conto per chi gestisce team di lavoro, migliorando le condizioni per favorire la cooperazione.
Avere i campioni è un buon inizio, ma serve anche un buon allenatore: la leadership situazionale.
Posso selezionare bene i giocatori che faranno parte della mia squadra, ma senza un buon allenatore non sarò in grado di indirizzare i talenti e guidare il team verso un buon gioco. Un buon allenatore non è il classico capo autoritario, ma è soprattutto colui che sa guidare, e premurarsi di capire di cosa abbiano bisogno i membri del proprio team per lavorare al meglio e per crescere. Ken Blanchard ha sviluppato il concetto di leadership situazionale mettendo l’accento proprio sui livelli di crescita e apprendimento dei collaboratori. Quando un lavoratore è all’inizio è molto motivato ad imparare e lo stile più adatto per Blanchard è dirigere, controllando e correggendo il lavoro. Più avanti, aumentando la difficoltà delle mansioni e le responsabilità, la motivazione può diminuire e sono utili anche i momenti con stile di leadership sostenere, fino ad arrivare nell’arco della carriera allo stile delegare. Redarguire per gli errori nelle fasi di apprendimento può aumentare la paura di sbagliare, quando spesso gli errori sono anche del management nell’attribuire un ruolo senza adeguati formazione, affiancamento e supervisione.
Lamentarsi di collaboratori poco coinvolti o pensare a come coinvolgere il team.
Blanchard prevedeva di coinvolgere i collaboratori, a un certo livello della loro crescita, chiedendo il loro parere su decisioni operative. In caso di opinioni diverse alla fine decide il manager, ma chiedere un parere fa sentire più coinvolti e aiuta a sviluppare senso critico, e motiva di più rispetto all’atteggiamento di chi non ascolta o non tiene in nessuna considerazione il parere dell’altro.
Per quanto riguarda l’arte del gestire i progetti, o project management, Marco Sampietro, professore alla Bocconi School of Management, fa notare che quando si pianificano le attività di lavoro di un progetto (con la Work Breakdown Structure o WBS), si ottengono risultati diversi se un manager di progetto (Project Manager o PM) scompone in maniera dettagliata le attività e le affida ai membri del team, oppure indice delle riunioni in cui costruisce insieme a loro tale struttura (o una sua parte). In questo ultimo caso i membri del team sono in genere più motivati sul lavoro da svolgere, perché si sentono più responsabili delle scelte operative e quindi più coinvolti. Hanno lavorato insieme per uno scopo comune e quindi partono più coesi come team.
Dal manager del tipo “stai zitto quando parli con me” al manager con un’ottica win-win.
Un manager individualista e autoritario può sviluppare delle dinamiche di tipo win-lose, in cui impone la sua visione e ottiene obbedienza apparente, ma potrebbe perdere nella qualità delle relazioni nel team. La mancanza di coinvolgimento potrebbe rallentare la produttività, nonché la diffusione delle informazioni. Se si aggiunge una cultura dei meriti e delle colpe in cui si vanno a cercare i colpevoli degli errori per redarguirli in maniera esemplare, invece che utilizzare gli errori per imparare lezioni e migliorare, la diffidenza e il malumore possono aumentare, come ci fa notare Ben Dattner nel suo libro Scaricabarile S.p.A..
Un/una leader guida con il buon esempio, che può essere quello di ammettere i propri errori, il che aiuta i membri del team a fidarsi di lui/lei, ad accettarne e apprezzare la guida per le sue doti e non per il suo ruolo imposto. Fidandosi di più, e interiorizzando dei buoni esempi, magari i membri del team non tengono nascosti gli errori per il timore di essere puniti o sgridati.
Con queste caratteristiche del leader e del team, si lavora per ottenere vantaggi reciproci; detto nei termini della teoria dei giochi di John Nash si favoriscono le dinamiche di tipo win-win.
Con dei leader così, i team come quelli di una volta non esistono più.
Giovanni Iacoviello
giovanni.iacoviello@gmail.com
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