Il giudizio sulle nostre e sulle altrui azioni quotidiane
“Le cattive azioni degli uomini vivono nel bronzo, mentre quelle virtuose le scriviamo sull’acqua”
William Shakespeare
Nell’avere a che fare con gli altri, siamo imparziali osservatori, oppure tendiamo a classificarli e a spiegare le loro azioni con una certa tendenza? Siamo capaci nelle interazioni di riconoscere le nostre responsabilità e le attenuanti dell’altro, o tendiamo a fare il contrario?
La differenza tra attore e osservatore nell’attribuzione di caratteristiche.
Quando osserviamo e valutiamo i comportamenti delle persone, di solito tendiamo ad attribuirli alle loro qualità permanenti piuttosto che a fattori che riguardano la situazione. Lo psicologo sociale Luciano Arcuri ha fornito l’esempio di quando guidiamo l’automobile. Le scorrettezze degli altri ci sembrano stabili, mentre le nostre sarebbero situazionali.
Viene da pensare che vi sarà la tendenza a giudicare più negativamente l’attore osservato che noi stessi, che in quella particolare situazione possiamo avere una giustificazione contestuale. E’ facile allora avere una scusa per sé (oggi sono molto stanco), e un’etichetta per attribuire una caratteristica stabile agli altri (è una persona maleducata, è un pirata della strada, etc.).
L’incoerenza è sempre quella degli altri.
A volte capita di ascoltare le dichiarazioni sui desideri delle persone, sui loro atteggiamenti riguardo alcune questioni, su come si comporterebbero in determinate situazioni. Poi magari scopriamo delle discrepanze nelle loro azioni, interpretandole come incoerenza. Ma è l’unica spiegazione possibile? Quando capita a noi di comportarci diversamente da quanto dichiarato ci giustifichiamo pensando di avere cambiato a ragion veduta idea sulla questione, o che in quella situazione un particolare fattore ci ha impedito di agire come previsto. Troviamo delle attenuanti alle nostre incoerenze.
Per l’incoerenza tra dichiarazioni e azioni delle persone, il giornalista Vance Packard ci raccontava (nel libro I Persuasori Occulti) che gli imprenditori negli anni ’50 del secolo scorso avevano imparato a dubitare delle dichiarazioni delle persone nelle indagini di mercato, concludendo che:
1) E’ un errore dare per assodato che la gente sappia ciò che vuole;
2) Non si può presumere che la gente dica la verità su desideri e paure, né che ne sia consapevole;
3) E’ deleterio presumere che il pubblico si comporti razionalmente.
Il differente metro di misura adottato quando osserviamo le azioni dell’altro rispetto alle nostre ci porta spesso a distorsioni valutative sul comportamento altrui. Per esempio se attribuiamo la stabilità al comportamento indesiderato dell’altro mentre al nostro diamo le attenuanti situazionali, può abbassarsi la fiducia di poter andare d’accordo con una data persona con la quale abbiamo avuto un diverbio. Potremmo concludere che non ci possiamo ragionare perché “tanto è fatta così”. E diventerebbe una “profezia che si autorealizza” (credere di avere poche chance di redimere una controversia ci può portare a impegnarci poco, andando a confermare la nostra teoria iniziale).
Per uscire da questo circolo vizioso potrebbe essere utile entrare nell’ottica di non giudicare l’altra persona per una singola azione, ed eventualmente utilizzare la profezia autorealizzante in modo positivo: “penso che il cliente rompiscatole che ho davanti in realtà sia ragionevole, solo che oggi se n’è dimenticato perché qualcosa gli è andato storto”. In quel caso, perché no, si potrebbe ricordargli quanto di solito sia saggio, senza esplicitarlo ma portando avanti questa convinzione nel nostro modo di interagire con lui.
Giovanni Iacoviello
giovanni.iacoviello@gmail.com
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