Conosci te stesso… guardando fuori?

Spesso le parole cambiano il loro significato nel tempo. E spesso vengono fraintese.

La frase antica “conosci te stesso” viene a volte interpretata come il consiglio di guardarsi dentro per capirsi.

Pare che tale sentenza religiosa antica, iscritta nel tempio di Apollo a Delfi, suggerisse agli uomini di riconoscere la loro limitatezza rispetto alla divinità, non di fare dell’introspezione.

A quale esigenza potrebbe rispondere invece questa “riflessione interiore”? Forse essa si aggrappa alla non falsificabile, e neppure verificabile tesi che, per risolvere i propri problemi, noi dobbiamo scoprirne le cause, e per farlo dobbiamo guardarci dentro. E cosa troveremo?

Paul Watzlawick, nel saggio Guardarsi dentro rende ciechi, ammetteva che, nei tre anni in cui è stato in analisi, e negli anni in cui ha fatto a sua volta l’analista junghiano con i suoi pazienti, non gli è mai capitato di trovare l’illuminazione, tecnicamente l’insight, col quale si scoprono le vere cause dei problemi delle persone. Dato che il lavoro di ogni buon analista o terapeuta non si limita a questo solo aspetto, si sottolinea che qui non si vuole criticare nessun orientamento nella sua generalità.

Viene da pensare: “Se un bambino cade in un pozzo, cerchiamo le cause o proviamo a tirarlo fuori al più presto?”. Nello stesso modo, per molti problemi personali non è affatto dimostrato scientificamente che troveremo la vera causa, dato che le ragioni (e non le cause e i fattori) del comportamento possono essere molteplici e statisticamente non calcolabili, per non dire non identificabili.

La ricerca della causa primaria è figlia della medicina, in cui se non trovo la causa della malattia il più delle volte non riesco a curarla. Semplificando molto, trovo il batterio (o il gene responsabile, o altri fattori), poi l’antibiotico, e quindi riesco a curare la malattia. Per le “cause” del comportamento invece non posso avvalermi di un esame del sangue o di una risonanza magnetica, ma solo dei resoconti della persona con la sua teoria del perché un problema è sorto o persiste, o magari della mia di ascoltatore e osservatore. Ammesso e non concesso che io possa conoscere l’origine vera di una paura, poi dovrei cominciare il percorso per risolverla. E allora perché non comincio direttamente da qui, dall’affrontarla e basta? Senza contare che fidandomi dei risultati delle indagini discorsive o introspettive potrei lavorare con una falsa causa.

Lo psicoterapeuta Thomas Hora diceva: “Per capire se stesso, l’uomo ha bisogno di essere capito dall’altro. E per essere capito dall’altro, ha bisogno di capire l’altro”. E allora, visto che nessuno è un eremita, o come diceva John Donne, un’isola, ma una parte di un tessuto sociale, noi abbiamo sempre a che fare con gli altri. Per George Herbert Mead, uno dei padri fondatori della psicologia sociale, “per fare una mente ci vogliono almeno due cervelli in interazione”. Quindi, se i nostri significati non possono prescindere da quelli della società e dalla cultura in cui viviamo, il guardarci dentro per capirci potrebbe equivalere allo stare lontano dal cibo per nutrirci.

La nostra vita ha senso quando raccontata agli altri, ed impariamo a raccontarla perché qualcuno ci ha cresciuto insegnandoci gli elementi e le norme di quel contratto collettivo che è il linguaggio, e altri ci hanno influenzato nello svolgersi della nostra esistenza, e anche nel ritagliarla e descriverla.

Guardarci dentro per capirci potrebbe essere un’azione non solo sterile, ma dannosa e fuorviante nel momento in cui è prolungata e ci allontana dagli altri, e nel momento in cui l’ascolto prolungato e isolato di noi stessi ci priva di spazio per allenarci nell’ascolto attivo dell’altro e nel dialogo per migliorare le nostre relazioni interpersonali. A meno che non ripensiamo ad una nostra emozione o non riflettiamo sui nostri obiettivi. Ma anche in questi casi la nostra emozione aveva uno o più spettatori, con le nostre aspettative su quel palco, tanto che William Shakespeare ha detto che “il mondo è un palcoscenico”, e i nostri obiettivi sono influenzati dagli altri.

Probabilmente è più guardando all’altro, simile a noi, che possiamo capire meglio chi siamo. Viviamo con l’altro, quindi le riflessioni sul senso e il significato della nostra vita devono riguardare più la nostra interazione con l’altro, piuttosto che il nostro sé isolato in chissà quale parte remota, presunta e sterile della nostra fantasia. E allora ha più senso guardare alle relazioni, guardare fuori e, se le nostre soluzioni ai problemi non funzionano, cambiare gli occhi con cui guardiamo, per modificare le nostre categorie conoscitive e quindi approcciare la vita in maniera diversa, cercando nuove soluzioni, diverse da quelle che non hanno funzionato. Notava Albert Einstein, infatti, che la follia è ripetere le stesse cose aspettandosi risultati diversi.

 

Giovanni Iacoviello

… a giovedì prossimo…

 

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